TRIBUNALE DI ANCONA, SEZIONE FALLIMENTARE: SCONGIURATO IL FALLIMENTO DI UNA STRUTTURA ALBERGHIERA
Il periodo di crisi dovuto alla congiuntura economica causata dai provvedimenti di contenimento della
pandemia da COVID 19 vede nel settore turistico/alberghiero uno di quelli più colpiti. Secondo una stima delle maggiori associazioni di settore, l’80% delle strutture alberghiere italiane è a rischio fallimento per la contrazione/azzeramento del volume d’affari.
In questo scenario ogni azione, vieppiù quelle volte al recupero di crediti presunti come vantati, dovrebbe essere condotta secondo criteri di rigorosa prudenza e nel rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale previsti dall’art. 2 della Cost..
Nel caso in questione, una struttura alberghiera, da anni coinvolta in un contenzioso giudiziale con una società di cartolarizzazione per un presunto debito eccedente gli otto milioni di euro, contestato sia nella legittimità che nell’ammontare, pendenti ancora i giudizi definitori delle questioni avanzate, si è vista notificare ricorso di fallimento da parte della stessa, unico creditore.
Un atto evidentemente volto, per la difesa della struttura alberghiera, a forzare la mano di una onerosa
transazione evitando l’alea dei giudizi nei quali, anche secondo la valutazione del Giudice in sede
prefallimentare, le ragioni di opposizione alle avverse pretese economiche ” non appaiono allo stato
manifestamente infondate”.
Avendo provato la difesa della struttura la capacità della stessa di stare produttivamente sul mercato,
riuscendo a sostenere, anche in periodo pandemico, i costi di gestione e la continuità lavorativa delle
lavoratrici e dei lavoratori coinvolti, il Tribunale ha statuito la legittimità del mancato pagamento volontario del debito ritenuto ingiusto statuendo che
“il solo mancato pagamento delle somme azionate, proprio per la loro natura, non giustifica la dichiarazione di fallimento e ciò in quanto l’inadempimento ad una obbligazione contrattuale non può essere confusa con la crisi di impresa, così come dal mancato pagamento di un credito non può automaticamente dedursi l’impossibilità di far fronte al complesso dei propri rapporti
negoziali e, quindi, di proseguire l’attività societaria”.
È sancito, a chiare lettere, il diritto alla resistenza al crematismo bancario, alla concezione speculativa dei rapporti di credito delle banche sin troppo tutelate da un sistema normativo che segna il passo dei tempi ed ad un sostanziale mancato rispetto da parte degli operatori della normativa di garanzia prevista dal Testo Unico Bancario.
In tal senso sarebbe utile un rigoroso intervento normativo basato sulla previsione del richiamato art. 2 della Costituzione. I rapporti economici, soprattutto quelli che vedono una evidente sproporzione tra
contraenti, dovrebbero passati sempre per il vaglio del rispetto dei doveri di solidarietà che, come nel caso in esame, sono costantemente ignorati da chi ha il suo ” core business” nell’acquisto di crediti in sofferenza, a prezzi stracciati, con intento speculativo.
Senza un correttivo che ponga al centro la tutela dell’impresa e del lavoro, l’azione sociale nei Tribunali da parte degli Avvocati esperti in crisi di impresa e del consumatore, non sempre aiutati da una visione coraggiosa dei magistrati, resta l’unica forma di resistenza davanti all’aggressione dei principi Costituzionali che garantiscono la coesione sociale.